Tanto tuono’ che piovve, come avrebbe commentato Socrate.
Alla fine, la marcia di avvicinamento dell’S&P 500 alla sua osservatissima media mobile a 200 giorni si è conclusa, ieri, con una chiusura sotto di essa, evento che non si era più verificato dalla Brexit (mentre un test intraday si era avuto sia alla vigilia dell’elezione di Trump che il 9 febbraio scorso).
L’ampio risalto dato alla vicenda dai media finanziari conferma l’enorme attenzione tributata di recente a quest’indicatore tecnico, tale da renderne quasi certa una violazione. Fallito l’assalto in chiusura di trimestre, causa position squaring, il successo è arrivato, guarda caso, alla prima seduta del trimestre successivo.
Certo, nel week end pasquale non sono mancati i catalyst.
La Cina ha dato corso alle (modeste) rappresaglie annunciate in reazione alle misure US su acciaio e alluminio, inserendo dazi su oltre 100 prodotti US (per un ammontare di 3 bln di beni tassati). Le categorie più rilevanti, come soia e aereomobili, non sono state toccate, ma in ogni caso la maggior parte delle misure ha riguardato il settore agricolo, un monito per l’Amministrazione USA.
In secondo luogo, Trump ha confermato le indiscrezioni che volevano Amazon (-5.2%) come il suo prossimo obiettivo, lanciando una serie di tweet al veleno in cui sostanzialmente sostiene che il colosso dell e.trading paga troppo poche tasse e sfrutta il servizio postale US imponendogli elevate perdite. Al conseguente malessere del Nasdaq ha contribuito l’indiscrezione che Apple avrebbe intenzione di sostituire il processori Intel (-6%) nei suoi prodotti con altri costruiti in casa.
Detto questo, nei citati catalyst c’era davvero poco di nuovo e attribuirgli interamente il -2.2% dell’S&P di ieri mi pare eccessivo. La riapertura dei book, il polo gravitazionale costituito dalla citata media e la scarsa liquidità dovuta alla chiusura dei mercati europei sono stati fattori importanti.
Sul fronte tecnico, la dottrina richiede che il breakdown sia confermato da una ulteriore discesa, che validi il segnale ribassista. La lotta sul livello può durare varie sedute (di fatto lo sta facendo) e quindi non c’è da essere troppo impazienti.
Per ora l’area di supporto da me indicata giovedi scorso, ovvero 2550-6000, ha tenuto (producendo anche il rimbalzo dai minimi del finale di ieri). Peraltro, il focus dei media si sta spostando sui minimi intraday del 9 febbraio, e comunque, altra pressione ribassista potrebbe arrivare dal fatto che il Nasdaq 100 non ha ancora toccato la “sua” media mobile a 200 giorni.
Di certo, vista la volatilità degli ultimi giorni, non è il caso di fare i farmacisti coi livelli. In ogni caso con 11 delle ultime 15 sedute negative, l’ipervenduto potrebbe comunque offrire qualche supporto nel breve.
Naturalmente l’Asia non ha gradito la price action di ieri in US. Ma non ha fatto nemmeno drammi.
Tokyo, forte di uno yen stranamente sordo alla risk aversion (come tutto il mercato dei cambi) ha ridotto ad una frazione la perdita. La sensazione di una recente resilience della piazza giapponese è confermata dai numeri: a 5 giorni il Nikkei perde lo 0.12% a fronte del -2.5% che, a seduta ancora aperta, mostra l’S&P 500.
Meno brillante, ma comunque non drammatica Shanghai (-0.9%) dove alla debolezza delle large caps fa da contraltare la forza del Chinext (small cap per lo più tecnologiche). Addirittura flat le “H” shares. Nel week end, sorpresa positiva dal PMI manifatturiero ufficiale cinese, uscito a 51.5 da 50.3 vs un consenso che lo vedeva salire marginalmente a 50.6. Tra i sottoindici, tutti più o meno in rialzo, spicca il settore costruzioni. Forse la caduta in febbraio del capodanno cinese ha prodotto qualche distorsione. Meno positivo il PMI markit di marzo (51 da 51.6 e vs attese per 51.7), segno che, a marzo, il vento è stato più favorevole per le grosse aziende statali che per la media impresa. Poco mossi gli altri indici, con Mumbai addirittura in positivo.
L’apertura europea ha un po’ confermato la natura prettamente US di quest’ultima fase di volatilità. Normalmente il vaso di coccio tra i vasi di ferro, l’Eurostoxx nella fase peggiore della mattinata è giunto a perdere poco più della metà di quanto lasciato sul terreno ieri dagli USA, e a 5 giorni è addirittura su dell’1.5% ( vs il -2.5% dell’S&P) avendo fatto il minimo proprio martedi scorso.
Sul fronte macro, oggi c’era la release finale dei PMI manifatturieri di marzo, che ha confermato il calo di 2 punti indicato dal dato flash. Nel dettaglio, peggio delle attese l’Italia (-1.7 a 55.1) e leggermente meglio la Spagna (-1.2 a 54.8), mentre le revisioni al dato tedesco e francese sono minimali. Nessuna novità particolare rispetto alle news di 2 settimane fa.
Il progressivo indebolimento dell’€, senza motivi apparenti se non un buon tono sul dollaro che ha recuperato i “low yielders” (Euro, Yen e Chf), ha permesso all’azionario europeo di recuperare ulteriormente.
Poco dopo l’apertura di Wall Street, Trump ha pensato bene di ribadire ancora il concetto su Amazon.
Grazie Donald. Al quarto Tweet contenente gli stessi concetti, finalmente, l’ho capito anche io: Amazon si approfitta del sistema postale US (e paga poche tasse).
Il mercato deve averla pensata allo stesso modo, visto che l’indice si è tuffato brevemente in negativo, ma poi ha recuperato (e Amazon è più o meno flat).
La chiusura europea, con un calo dell’Eurostoxx inferiore al mezzo punto, a fronte di Wall Street che recupera meno di 1/5 delle perdite di ieri, ribadisce il concetto espresso sopra: l’azionario continentale ha forza relativa. Speriamo che non la usi tutta nello sforzo di assorbire i cali d’oltroceano. Il rimbalzo del risk appetite rispetto a ieri ha messo un po’ di pressione ribassista ai bonds.
La settimana è partita sottotono, sul fronte macro, ma si animerà già domani con i PMI servizi globali di marzo in Cina e Giappone, il CPi eurozone di marzo, e in US l’ADP e l’ISM non manufacturing.
Venerdi abbiamo il labour market report US di marzo e un atteso discorso di Powell.
E poi avremo l’inizio della earning season US la settimana successiva. A tale proposito, Bloomberg ha prodotto, per l’S&P 500 lo stesso grafico che giorni fa aveva fatto per l’Eurozone, mostrando che anche i multipli US, per effetto dello storno, hanno visto un bel ridimensionamento. Il forward PE dell’S&P 500 è tornato al livello di 16, visto l’ultima volta in occasione della Brexit, e precedentemente 24 mesi fa.
La differenza con il 13 espresso dallo Stoxx 600 resta massiccia, ma le valutazioni non sono più estreme come 2 mesi fa.