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Questa sera il risultato delle elezioni in catalogna… L'azionario europeo rimbalza

Lampi di Colore 925

La fine della querelle sull’approvazione della riforma fiscale US ha visto il minimo sindacale in termini di “sell the fact” sull’azionario (-0.08%) e qualcosa di più invece sul mercato dei tassi, col 10 anni treasury a lambire il 2.5% ieri in chiusura e ancora oggi. Naturalmente, al movimento ha contribuito il vistoso rimbalzo dei rendimenti in Eurozone dove il mercato dei tassi sembra essersi improvvisamente accorto del momentum con cui l’economia europea approccia il 2018.

Dove la curva dei tassi resta per il momento succube del volere della Banca Centrale, è  in Giappone. E, in questo senso, il meeting della BOJ di stanotte non ha portato novità. Il board ha votato a  maggioranza lo status quo, con l’unico dissenso in direzione di una stance ancora più accomodante, e Kuroda ha tenuto un tono prudente, sostenendo che il ritorno dell’inflazione al target è il principale obiettivo della politica monetaria e che questa non verrà modificata solo a causa di un accelerazione della crescita. Non che il mercato si aspettasse granchè  di diverso, come si nota dalla reazione dello Yen (fermo sui livelli di ieri), e  di Tokyo. Va detto che la divisa giapponese aveva già ceduto terreno i giorni scorsi, proprio in virtù del movimento sui tassi globali, che per ovvi motivi non può trovare riscontro in quelli giapponesi.

L’atteggiamento di Kuroda, i cui tratti si possono scorgere anche negli approcci di altre importanti banche centrali, è  stato sintetizzato in maniera assai efficace da Stephen Roach in un recente pezzo: ossessionate dall’inflation targeting, in un mondo in cui per motivi strutturali l’inflazione è stata scarsa, le Banche Centrali hanno ritardato troppo la normalizzazione delle politiche monetarie, contribuendo a porre i presupposti per i vari fenomeni di asset inflation e scomparsa dei risk premia che si osservano oggi. Volatilità ai minimi storici, multipli elevati su alcuni mercati, rendimenti e spreads ai minimi, bolle immobiliari e criptovalute sono gli esempi più evidenti.
Intendiamoci, l’amministrazione della politica monetaria è tutt’altro che facile.  Oggi,  con gli USA che crescono al 3% da 3 trimestri (assumendo che anche il dato sarà all’incirca questo anche nel trimestre corrente) e Wall Street che tratta a 31 di CAPE  (Cyclically Adjusted PE) ovvero nel 97mo percentile, sembra ovvio che i Fed Funds dovrebbero essere più elevati di 1.5%. Ma appena 18 mesi fa il  primo rialzo, operato dalla Yellen tra  mille titubanze a fine 2015, era stato da molti definito un errore di politica monetaria.
Di fatto, però, appare evidente come il nobile obiettivo di stimolare la crescita, e il cosiddetto “rischio reputazionale” (ovvero il desiderio di evitare accuse di aver sabotato crescita e mercati) inducano in media le Banche Centrali a errare maggiormente in direzione di un eccesso di prudenza.

Di una certa prudenza sembrano aver fatto uso anche le Autorità cinesi, nel illustrare l’outcome della  Central Economic Work Conference conclusasi oggi. Nessun target di crescita è  stato indicato, ma è stata reiterata la necessità di mantenere stabilità,  il che sembra essere coerente con un target ufficiale in linea col  precedente (6.5%). Sono stati però ribaditi gli obiettivi di deleverage, contenimento dei rischi finanziari,  lotta alla povertà e tutela  ambientale. I dettagli sono scarsi, il che, insieme al discorso sulla stabilità, deve aver contribuito alla reazione di sollievo  sui mercati.
La positività è rimasta confinata ai mercati cinesi, mentre il resto degli indici dell’area ha un po’ faticato, in particolare Seul, depressa da Samsung.

L’apertura europea è stata nuovamente caratterizzata da un tono nervoso e negativo. Onestamente, ho compreso poco i motivi della sottoperformance europea delle ultime sedute. Vero, il rimbalzo dei rendimenti ha offerto il consueto supporto alla divisa unica, tornata nella parte alta del recente range 1.1750 – 1.19 vs $. Ma il movimento sui tassi,  per il momento, non è che una (minima) presa d’atto dello stato di forma dell’economia Eurozone, cosi come appare dalle varie survey, mentre l’€ si trova su questi livelli da fine luglio. In quest’occasione, poi, anche  l’effetto del rimbalzo dei tassi sul settore bancario è  stato scarsamente percettibile (mentre si è visto quello negativo su utilities). Naturalmente, per quanto ormai scontata, l’approvazione di nuovo stimolo fiscale  in US può ben costituire un motivo per un outperformance dell’azionario US. Più difficile è spiegarsi una divergenza tra i 2 mercati.

Se non altro, la debolezza iniziale degli indici è stata rapidamente recuperata, e l’azionario continentale si è assestato intorno alla parità in tarda mattinata.

Diversamente da quello europeo, il calendario macro US era abbastanza nutrito oggi:

** Il  Philly Fed ha sorpreso in positivo oggi, pur restando lontano dai livelli siderali della prima metà del 2017 (26.2 da prec 22.7 e vs attese per 21). Tra i sottoindici, forti i new orders (+8 a 29.8).
**  I jobless claims sono rimbalzati più delle  attrse ma restano su livelli frizionali
** La terza revisione del GDP US del terzo trimestre ha limato 0.1% a +3.2% annualizzato, a causa di un modesto ridimensionamento dei consumi. Lieve ridimensionamento del PCE deflator
** Il Chicago FED national actvity index di novembre ha deluso, segnalando crescita solo poco superiore al trend, ma il dato di ottobre, già fortissimo, è stato riviasto al rialzo.

In generale, i dati, sempre di buona qualità ma misti rispetto alle attese,  hanno messo un tetto al rialzo dei rendimenti, e Wall Street è partita bene. Cosi, i mercati europei hanno definitivamente cambiato umore, mettendo a segno un rimbalzo, aiutati dai settori energy e risorse, e dalle banche che finalmente hanno dato un occhio alla direzione dei tassi negli ultimi giorni. In generale l’attività è da periodo festivo.
Stasera  dovremmo avere anche i risultati ufficiali delle nuove elezioni in Catalonia. Le  prime poll (Vanguardia) danno una vittoria risicata ai separatisti, il che per il momento non sembra avere alcun impatto sui mercati.
Domani chiudiamo la settimana con una serie di dati rilevanti in US tra cui i Durable goods e il  PCE deflator di novembre. Visto il CPI, pochi si attendono sorprese al rialzo dal deflator, e probabilmente è un atteggiamento sensato.  Probabilmente per i primi segnali di un ulteriore accelerazione dell’inflazione core in US dobbiamo aspettare i primi mesi del 2018. Ma forse i bonds si stanno portando avanti.