Riesplodono le tensioni commerciali tra USA e Cina.

Riesplode,  dopo un periodo di calma relativa, la questione delle frizioni commerciali USA – Cina. Ieri sera, a  mercati USA  chiusi, l’ufficio dell US trade Representative ha divulgato una nuova lista di beni per un totale di 200 miliardi di Dollari,  sui quali ha in programma di elevare dazi del 10%. L’azione è  stata giustificata dal  Segretario Robert Lighthizer con la circostanza  che la  Cina,  anzichè porre rimedio ai comportamenti che preoccupano gli USA, ha posto in essere delle rappresaglie.

In verità, la  pubblicazione di questa lista non deve sorprendere più di tanto: Trump aveva dichiarato il 18 di giugno scorso di aver dato mandato all’USTR di stilare un nuovo elenco di quest’entità, da porre in essere nel caso la  Cina reagisse alle prime imposizioni. Ma l’anticipo con cui quest’azione è stata intrapresa (quando ancora devono entrare in vigore dazi su 16 bln già decisi) ha forse colto alla  sprovvista  i mercati.
Le  tipologie di beni candidate ad essere tassate mostrano che l’USTR sta cercando di contenere l’impatto sul consumatore americano delle misure. Si tratta per  lo più di componentistica PC, mobili, materiali, semilavorati,  mentre vi sono pochi beni di consumo, e categorie, come  giocattoli e smartphone, in cui la  Cina domina il mercato (e quindi la sostituzione con altri fornitori è difficile) sono totalmente assenti. Naturalmente, nella produzione di ulteriori liste di beni da tassare, quest’approccio risulterà più  difficile  da  applicare, ulteriori dazi impatteranno su prezzi, reddito disponibile e quindi consumi, o in alternativa sui margini aziendali.
La  lista sarà come da protocollo,  soggetta a discussione, in particolare in udienze pubbliche tra il  20 e il  23 agosto, e la decisione finale  avverrà il  30 agosto, quindi i dazi (e relative ritorsioni)  entreranno in vigore non prima  di settembre inoltrato. USA e Cina hanno quindi oltre 2 mesi per scongiurarne l’applicazione accordandosi.
La reazione cinese non si è fatta attendere, il Ministro del  Commercio si è detto “shoccato” dell’azione, giudicata dannosa per “la  Cina, il  mondo e gli USA stessi”. Ha ribadito che la Cina non vuole una trade war, ma non negozierà sotto minaccia e non ha altra scelta che reagire agli attacchi. Aspre critiche sono state rivolte al comportamento di Trump, erratico ed indifferente ai progressi cinesi. Ma  si è  ribadito l’impegno ad  aprire l’economia cinese agli investitori esteri.
I Cinesi non sono stati gli  unici a mostrare perplessità. Il presidente della Commissione Finanza al Senato US Hatch ha dichiarato che, sebbene le pratiche cinesi in termini di proprietà  intellettuali non possano essere ignorate, quest’azione è “spericolata e  priva di una strategia che dia potere negoziale agli USA preservando la salute  dell’economia USA”. Un altro  Repubblicano eccellente, Il Presidente del Helath Subcommittee alla Camera Brady, ha dichiarato che Trump e il Presidente Xi dovrebbero incontrarsi e raggiungere un accordo.

Con le ultime mosse di Trump, il  rischio di un escalation nella trade war aumenta. Supportato da un quadro macro quanto mai robusto, e  dalla convinzione che il deficit commerciale e la forza relativa dell’economia US vs quella cinese ed europea gli forniscano parecchia potenza di fuoco in più rispetto agli avversari, il  Presidente USA continua a forzare la mano, da un lato cercando una resa incondizionata, e dall’altro perseguendo il consenso elettorale che gli deriva dal farsi alfiere in giro per il mondo degli interessi degli Americani. Il primo risultato mi sembra totalmente fuori portata, e secondo me nemmeno Trump crede veramente ad una resa cinese.
La  Cina non ha nulla da guadagnare a cedere al ricatto. Vero, l’ammontare delle importazioni di merci dagli  USA (circa 150 bln) le  impedisce di rispondere specularmente a queste misure, se dovessero entrare in vigore. Ma è evidente che il colosso  asiatico ha altre  frecce al  suo arco. Può intraprendere azioni regolamentari per contenere il deficit sullo scambio di servizi (education, turismo,  entertainment, acquisto di brevetti per citarne alcuni).  Può ostacolare gli enormi interessi presenti e futuri delle  aziende USA in Cina (vedi Lampi del 19 gennaio ), visto che secondo alcune stime il valore dei beni prodotti e venduti sul territorio da sussidiarie di aziende US supera i 300 bln. Può utilizzare strategie più opache,  disincentivando e boicottando l’acquisto di prodotti USA, bloccando le merci in dogana,  aumentando la regolamentazione, e favorendo l’accesso ai mercati cinesi di altri paesi concorrenti. Può infine ricorrere ad armi non convenzionali come la svalutazione e la liquidazione della sua posizione in treasuries, sebbene queste misure abbiano forti controindicazioni.
Alcune di queste contromisure stanno già  venendo messe in pratica. Naturalmente le autorità continueranno a seguire la strategia di reazione agli attacchi,  guardandosi bene dal iniziare per  primi azioni ostili.

Dovesse questo round di misure entrare in vigore, l’impatto  sul ciclo cinese e globale comincerebbe a farsi sentire. Intanto, ciò  implicherebbe che nei prossimi 2 mesi, tempo necessario per svolgere l’iter di imposizione dei dazi, non si è  compiuto alcun progresso in direzione di un accordo,  e quindi le  azioni e reazioni minacciate nel frattempo sarebbero cresciute di numero. Entrando nel merito,  se  la  Cina ha certamente da perdere in termini di export, i vantaggi per gli USA  da una riduzione del deficit verrebbero facilmente annullati dall’impatto sul reddito disponibile dei rialzi dei prezzi per i beni non sostituibili (senza contare che magari alcune aziende locali approfitterebbero per alzare a loro volta i prezzi). Vi sarebbe poi l’effetto delle rappresaglie cinesi su alcuni settori (agricoltura, industria pesante). Infine ci sarebbe l’impatto sulla confidence e sugli investimenti dell’aumento della  probabilità di una trade war a tutto campo, un fattore che andrebbe a deprimere l’intera economia globale, a  prescindere da chi ci guadagna dallo spostamento della domanda di beni US e cinese. Alcune stime collocano il costo  in termini di GDP  per l’economia USA e globale tra 1% e 1.25%.

Dubito che considerazioni come queste, largamente condivise, pur con qualche distinguo, da economisti, case di investimento, operatori di mercato e Ceo (più parte del  congresso), vengano ignorate dall’inquilino della Casa Bianca e dal suo staff. Per questo motivo, continuo a credere che alla fine si troverà una soluzione negoziale di qualche tipo. Ma è anche vero che lo stato di salute dell’Economia US, e l’impatto positivo che l’atteggiamento di Trump sta avendo sul suo consenso elettorale, a  pochi mesi dalle midterm elections, non mettono alcuna fretta al Presidente di desistere dal suo atteggiamento provocatorio. L’unica cosa in grado di mettergli pressione, è che si inizino a sentire,  sul territorio e su alcuni settori, gli effetti delle rappresaglie cinesi. Perciò, tenderei l’orecchio verso gli stati agricoli, l’industria pesante e le aziende con business globale e/o forti interessi in Cina. Sospetto che non manchi molto prima che qualcuno li,  o al  Congresso, dove siedono i rappresentanti di queste categorie, inizi a far sentire la  propria voce in maniera un po’ più convinta.

Nel frattempo, possiamo goderci le ricadute sui mercati di queste crescenti frizioni. Stamattina in Asia la reazione è  stata robusta, anche se di entità assai inferiore a quanto avvenuto il 19 giugno (all’indomani dell’annuncio da parte di Trump di aver dato incarico all’USTR di elaborare la lista uscita ieri sera). In quell’occasione Shanghai lasciò sul terreno il 3.8%, oggi “solo” l’1.76%. Il resto dei principali indici resta compreso tra il -1.2% di Tokyo e il +0.01% di Mumbai. Lo yuan ha perso vistosamente terreno (-0.4%) tornando a 6.67 vs $, e la versione offshore ha continuato la discesa in giornata andando a lambire nuovamente la soglia di 6.7. D’altronde il  regulator cinese ha lasciato intendere che la  divisa potrebbe scendere ancora un po’ ( CHINA FX REGULATOR CHIEF: COMPANIES SHOULD HEDGE TO PROTECT THEMSELVES AGAINST YUAN’S FLUCTUATIONS).

L’Eurostoxx veniva da 6 sedute positive a  fila, e, visto il contesto, le prese di beneficio non si sono fatte pregare. Gli indici hanno accumulato fin da subito un buon passivo, e i tassi core hanno reagito da manuale alla  risk  aversion, scendendo,  cosa che ha prodotto un moderato allargamento dello spread nonostante la  sostanziale stabilità del BTP.
Con un certo ritardo, si è  visto un certo impatto anche sull’€.  D’altronde l’economia Eurozone non è certo ben attrezzata per affrontare una trade war, e  comunque recentemente la risk aversion originata da frizioni commerciali ha aiutato il  $.
La discesa della  divisa unica ha subito però un brusco stop con la comparsa di indiscrezioni raccolte da Reuters secondo cui alcuni membri del Governing Council ECB sarebbero a disagio con l’idea di un primo rialzo in autunno 2019 e preferirebbero parlare di luglio. Un dibattito sterile, a mio modo di vedere, a 12 mesi dalla prima data eventualmente disponibile per un rialzo, e con il QE ancora da concludere. Ma il rumoreggiare dei falchi nel Governing Council ha comunque offerto  supporto all’€ e lo ha sottratto ai bonds (core e periferici), finendo eventualmente per peggiorare la reazione dell’equity.

In attesa del  CPI US di giugno in uscita domani, oggi era una giornata povera di dati (PPI US giugno leggermente  sopra  attese). Cosi il palcoscenico è rimasto saldamente  in mano alle tensioni sul trade, e anche Wall Street, ha aperto in calo, anche se, come al  solito per una frazione di quanto lasciato sul campo dall’ Europa. D’altronde, anche qui le tensioni hanno un timing perfetto, con l’S&P che proprio ieri sera ha chiuso a contatto con la resistenza in area 2790-800 (vedi Lampi di ieri)

Cosi, gli indici europei hanno chiuso con perdite importanti, e più o meno sui minimi di seduta. Se non altro, la domanda di dollari stimolata dalle tensioni sul trade ha attenuato l’impatto sull’€ delle indiscrezioni di  Reuters, con la divisa unica che chiude in moderato calo. Il  quadro delle variazioni verso dollaro delle divise del  G10 oggi è abbastanza eloquente.

Un po sorprendente che in una giornata del genere lo Yen perda terreno contro dollaro. Ma forse gli investitori mettono il Giappone tra i paesi più sfavoriti in caso di una trade war.

Stabili in generale i rendimenti globali. In  US pesa forse il potenziale impatto, sui prezzi, dei dazi, e comunque domani abbiamo la pubblicazione del CPI di giugno. In Eurozone la forza del bund è stata contenuta forse dalle indiscrezioni ECB, e comunque, a 0.36% non si può certo dire che ci sia valore (al momento l’inflazione Eurozone e tedesca si aggira intorno al 2% e la crescita Eurozone intorno all’1.5%, mentre il  QE dovrebbe terminare entro 6 mesi).
Lieve rialzo  per i rendimenti della carta italiana, una performance non disprezzabile visto che, sentiment a parte, domani il mercato deve assorbire tra 4.5 e 6.5 bln di btp su 4 linee (3, 5, 15 e 20 anni). Se  domani la domanda fosse buona, sarebbe un bel segnale.