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Si svegliano i tassi di interesse globali

Ieri sera, il Beige book FED ha continuato a mostrare livelli di crescita tra il modesto e il moderato in tutti i distretti, con però  ulteriore accelerazione dei prezzi in particolare dei materiali da costruzione. La  novità è stata  la  comparsa di preoccupazioni tra le  aziende  per l’impatto dell’imposizione dei dazi alla  Cina.

Wall Street poi ha mantenuto in chiusura un marginale  guadagno (+0.08% S&P 500) ma  senza la  forza di Energy e Materials, alimentata dal boom delle commodities,  sarebbe finita diversamente. Diciamo che la  seduta può  essere considerata un consolidamento del  recente  rialzo  (+ 4% in 8 sedute).

Un aria consolidativa che forse avrebbe interessato anche l’Asia,  se gli indici cinesi non avessero scelto proprio oggi per  una seduta di riscossa. Difficile individuare un motivo  preciso per questo rimbalzo. Certo, i settori energy e materials hanno trainato, inseguendo i prezzi  delle rispettive commodities. I finanziari poi, hanno avuto una reazione ritardata al taglio della riserva obbligatoria, forse.
Nelle ultime ore si è fatto un gran parlare del  crollo  dei rendimenti cinesi,  con il 5 anni che ha perso 40 bps nello spazio di pochi giorni.

Il succo è che la  violenta contrazione costituirebbe un presagio di brusco rallentamento macroeconomico, coerente con quanto osservato sull’azionario nelle  ultime settimane.
Personalmente, sono poco stupito che,  in un economia opaca come quella cinese, la  comparsa di frizioni commerciali con gli USA causi un po’ di “growth scare”. Detto questo, dando  un occhio al  settore immobiliare, che per l’impatto su GDP, wealth e revenues fiscali è un driver fondamentale del  ciclo, non sembra proprio di  intravedere una brusca frenata. E poi c’è il  segnale dato dalla  price  action euforica sulle  commodities industriali,  anche se è vero che la  recente accelerazione è  in gran parte un effetto delle distorsioni legate ai dazi su alluminio etc.
I movimenti bruschi sui tassi sono sempre e ovunque fonte di preoccupazione. In Cina meno di di 6 mesi fa, con 5 e 10 anni che puntavano al 4%, ci si preoccupava dell’effetto di un rialzo della  spesa  per interessi in un economia cosi indebitata. Adesso che rientrano, ci si focalizza sul  significato macro. In realtà,  in contesto controllato come quello  dei tassi cinesi, spesso questi movimenti rispondono a necessità di politica  monetaria. Che i rendimenti scendano in una fase in cui l’economia affronta il  rischio di una trade war,  sorprende poco.

La seduta europea è  iniziata con un tono interlocutorio  e volumi ridotti. Oggi non era prevista la  pubblicazione di dati e l’earning season in Europa deve ancora entrare nel vivo.  Cosi, con gli indici ai massimi da un mese e mezzo, l’azionario si è messo  ad attendere Wall Street, per la  direzione.
L’azione si è vista sui bonds,  deboli fin dall’apertura e oggetto di pesanti vendite senza un catalyst preciso, se non fatti già noti: la  forza di petrolio e commodities, il buon sentiment sui risk asset dei giorni scorsi,  l’avvicinarsi dell’appuntamento con l’ECB,  giovedi prossimo. Naturalmente, l’effetto tassi si è  visto progressivamente sul  settore bancario europeo, che ha accumulato  una progressiva outperformance nei confronti dell’indice generale.

Nel primo pomeriggio,  il  Philly Fed di aprile ha battuto marginalmente il consenso (23.2 da prec 22.3 e vs attese per 21).  La survey attenua un po’ il messaggio dell’Empire NY,  ed in generale  resta su un livello elevato  in assoluto. I dettagli sono un po’ meno positivi,  con i new orders che hanno corretto dai  livelli eccezionali di marzo  (18.4 da 35.7  precedente).
Anche qui,la  notizia  è costituita dal sottoindice dei prezzi pagati,  che è balzato  a 56.4 (+13.8) massimo dal 2011. Quest’ultima informazione non è sfuggita  al mercato, che ha preso  a vendere i bonds con ancora più convinzione di prima.
La situazione non è priva di ironia, visto che negli ultimi giorni il clamore relativo all’appiattimento della curva USA,  con immancabili speculazioni sull’imminenza di una recessione, stava tornando assordante. Come già  accennato  in passato,  poichè l’inversione della curva treasury ha anticipato le ultime recessioni US di una media di 18 mesi, personalmente rinvio le  relative preoccupazioni a quando questa si invertirà (lo spread tra il  2 e il  10  anni era ancora superiore ai 40 basis points).

A fine giornata,  i rialzi dei rendimenti globali sono in generale significativi. Il  10 anni treasury è tornato sopra il  2.9%,  il bund sfiora lo 0.6% e tra i periferici solo Portogallo e  Grecia hanno contenuto il  rialzo, ottenendo una contrazione degli spreads.

Su una Wall Street che già  aveva la tendenza al  consolidamento,  l’improvvisa volatilità  sui tassi ha avuto l’effetto di un catalyst negativo, e infatti gli indici mostrano in significativo passivo, a 3 ore dalla chiusura.
L’azionario europeo in chiusura mostra però perdite trascurabili,  in parte per la  reazione positiva del  settore bancario (unico a salire anche a Wall Street), in parte perchè l’S&P 500 ha accentuato le  perdite dopo la chiusura europea. E poi, l’impennata dei tassi sembra aver ridato un po’ di vigore al dollaro, cosa che come noto non dispiace alle piazze europee e a  Tokyo.

La situazione tecnica sui tassi si fa interessante.
Con il  calo di oggi il bund è uscito al  ribasso da un consolidamento di 3 settimane in un range alquanto ristretto.

Tra l’altro le  news su fronte macro e inflattivo hanno continuato ad essere supportive in questo  periodo, il  che rende ancora più significativa l’incapacità  del  contratto di continuare il trend rialzista.
Dal treasury non dovrebbe arrivare troppo supporto, considerando che 1) lo  spread  di rendimento tra   i 2  benchmark ha raggiunto,  per  effetto  della  sottoperformance del 10 anni US, il  massimo storico si 232 punti base (il database di Bloomberg risale ai primi anni 90); e ii) lo stesso  grafico del treasury non è  particolarmente bello,  sebbene ancora non si possa parlare di rottura ribassista.