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Nuova escalation nelle tensioni commerciali USA – Cina

Eccoci serviti.
Non sono passate 48 ore dall’annuncio della rappresaglia commerciale cinese, che Trump, il cappello da cowboy metaforicamente in testa, ha dichiarato di aver dato incarico all’  US Trade Representative  di elaborare una lista di prodotti cinesi per un ammontare di 200 bln $ su  cui elevare un dazio del 10%, e ha minacciato di farne selezionare per altri 200 bln nel caso la  Cina si azzardi a replicare. Il segretario di Stato Pompeo ha rincarato la dose, dichiarando che i Leaders cinesi professano apertura ma è una presa in giro, e il loro è il più rapace dei governi, un problema che deve essere affrontato.
La replica, naturalmente, non si è fatta attendere. Il Ministero del Commercio cinese ha dichiarato che se l’USTR pubblicherà tale lista, la Cina “intraprenderà  azioni estese, qualitative e quantitative, e reagirà vigorosamente”.
La tattica di Trump sembra chiara: siccome la Cina sta rispondendo con misure  di pari importo alle tariffe US, il Presidente mira a sparigliare il tavolo, con un provvedimento la cui entità Pechino non può replicare. Infatti le esportazioni USA in Cina ammontano a circa 170 bln in totale, mentre Trump ha a disposizione oltre 500 bln di importazioni da tassare.

Cinesi in un cul de sac quindi ? Piano.
Un interessante studio di Deutsche Bank osserva che la bilancia commerciale è un indicatore incompleto dei rapporti di scambio tra USA e Cina, perchè non tiene conto dei beni e servizi USA che vengono venduti sul territorio senza passare la dogana. Per fare un esempio,  gli autori osservano che General Motors ha venduto più auto in Cina che negli USA ne 2017 (4 mln di pezzi) ma solo 1.2 mln risultano importati. Gli altri provengono da una joint venture sul territorio. Stesso discorso per gli smartphone: Apple ha 1/6 del mercato cinese, ma queste vendite, che fruttano 48 bln di ricavi alla casa di Cupertino, non figurano nel trade perchè gli Iphone vengono assemblati in Cina (dove la manodopera costa meno) e gli esemplari destinati al mercato US e agli altri paesi risultano esportati. Il succo di questa storia è che la  bilancia commerciale bilaterale non tiene conto dei beni e servizi prodotti e venduti sul territorio cinese da sussidiarie delle aziende US, che ammontano, secondo la stima di DB, a 275 bln,  sufficienti quasi a pareggiare la bilancia, cosi corretta.


Si può obiettare che uno smartphone costruito in Cina non può essere considerato un importazione (e come tale,  non può essere oggetto di dazi) e non da lavoro a maestranze americane. Ma ciò non toglie che gli USA hanno sul mercato cinese interessi ben superiori a quelli rappresentati dal bilateral trade. Interessi che possono essere colpiti da misure diverse dai dazi, e causare parecchi danni a Corporate America.
Una riflessione di carattere generale, può  invece essere fatta sulla circostanza che l’affidabilità del delle bilance commerciali bilaterali come indicatori dei rapporti commerciali tra paesi è resa inefficace dall’esistenza delle global supply chains. In altre parole, le  importazioni di prodotti finiti da un paese non tengono conto del fatto che componenti e semilavorati possono venire da  altri paesi. Tornando al caso dell’ Iphone,  In Cina avviene l’ assemblaggio del prodotto, ma molti dei componenti vengono da altrove (Giappone, Corea, perfino gli USA) .
In sostanza, posto che in una trade war ci perdono tutti, e molte delle misure di pressione hanno effetti negativi anche su chi le applica, (si pensi all’impatto su reddito  disponibile dei dazi), si può concludere che la Cina conserva ancora ampie possibilità  di fare rappresaglie commerciali contro gli USA colpendo in vario modo i numerosi interessi che questi hanno sul suolo cinese. In questo senso,  l’accenno a misure “quantitative e qualitative” fatto dalle autorità non deve lasciare tranquilli. E questo ancor prima di prendere in considerazione metodi estremi drastici ma densi di incognite,  come la svalutazione della divisa, o la  liquidazione dei treasury in portafoglio.

tali circostanze sono sicuramente note a Trump e al suo staff, e questo è il motivo per cui ritengo che ciò a cui stiamo assistendo è una nuova rappresentazione della tattica negoziatrice di Trump, il cui vero obiettivo, oltre a procurare un vantaggio commerciale al paese, è di procurarsi un nuovo “victory lap” in autunno,  simile a quello che sta facendo da giorni con con la soluzione Nordcoreana (vedi tweet)

Purtroppo, l’autunno è ancora lontano e il rischio è che il muro contro muro duri ancora settimane, le misure già definite entrino in vigore il 6 luglio e altre vengano ammesse all’iter di determinazione. Infine, va considerata l’eventualità che Trump sia davvero ossessionato dal bilateral trade con varie aree del  globo e quindi miri a ridurre il deficit a suon di dazi. E c’è la remota possibilità che le Autorità cinesi si spazientiscano,  anche se, conoscendoli,  parliamo di una probabilità ridotta. Il tipo di regime che amministrano gli permette di mirare al lungo periodo.

Venendo alla seduta odierna,  l’azione -reazione di ieri sera ha spaventato tantissimo l’Asia, che ha tutto da perdere dallo scontro, nonchè dalla prospettiva di un calo del global trade e un rallentamento delle prime 2 economie globali. I principali indici dell’area hanno subito storni pesanti. Se togliamo Sydney (-0.03%) e Mumbai (-0.8%) il resto degli indici è compreso tra il -1.65% di Taiwan e il -3.75% di Shanghai. Su Tokyo (-1.8%) ha pesato anche il rimbalzo dello Yen seguito al montare della risk aversion.

L’Eurozone aveva già i suoi problemi con la crisi politica tedesca,  ed ha accolto in pieno il sentiment asiatico. Perdite diffuse su tutti gli indici, quindi supporto ai bonds core Europe e iniziale debolezza per i btp sono state le principali reazioni. In assenza di dati macro di spessore, l’attenzione era concentrata sull’intervento di Draghi a Sintra. Il Presidente ECB ha  confermato le view espresse giovedi scorso,  e sostanzialmente validato la reazione del mercato, sostenendo che quanto prezzato dai tassi monetari è coerente con questa view. Cosi l’€ è andato a rivisitare i minimi di giovedi scorso, e anche sotto, nelle fasi più acute di risk aversion.
Il sentiment si è progressivamente ripreso dalla tarda mattinata in poi. Il miglioramento è stato particolarmente evidente per Piazza affati, trainata al rialzo dalle ricoperture in particolare sulle banche, grazie all’ipotesi di pulizia di bilancio per alcuni istituti. A favore degli asset italiani ha giocato anche la relazione di Tria alla Camera sul Def, approvata a larga maggioranza. Il Ministro dell’ Economia punta ad un implementazione graduale del programma di governo, alla riduzione del rapporto debito/Pil, al blocco dell’aumento dell’IVA e al supporto degli investimenti. E’ stata confermata la necessità di copertura delle spese, mentre in tema di deficit vi sarà collaborazione con EU.

Nel primo pomeriggio l’unico dati macro US: i nuovi cantieri hanno sorpreso in positivo di parecchio a maggio (+5% da -3% vs +1.9% atteso). Meno buoni i permessi di costruire (-4.% vs -1% atteso) che però fruiscono di una revisione al rialzo di aprile di quasi un punto a -0.9%. L’apertura di Wall Street ha visto ancora qualche brivido,  poi  le autorità cinesi si sono fatte sentire ( PBOC Governor Yi Urges Investors to Stay Calm) e il miglioramento del mood è ripreso, non però a ritmo tale da evitare a Eurostoxx, Dax e Cac una chiusura pesante. Assai meglio Madrid e Milano, aiutate dal citato rimbalzo dei settori bancari, stravenduti di recente. In compressione i rendimenti sia in Europe core e che US, mentre gli spreads hanno mostrato allargamenti moderati. Modesto recupero anche per l’€ che resta comunque in calo sotto 1.16, mentre a un ora dalla chiusura Wall Street contiene le perdite a meno della metà di quelle massime di giornata.